di Lina Cammarano
L’albergo Dongo mi veniva di fronte. Più lo scrutavo, più la percezione mi confermava un sentimento di vecchio, ammuffito, stantio, di abbandonato dagli uomini e dalla storia. Sebbene per indole abbia sempre nutrito una considerazione speciale per l’antico, poiché tutte le cose antiche mi comunicano un vissuto lungo, mi profumano di esperienza, di saggezza, di esempi fuori dal tempo, in quella circostanza c’era qualcosa di diverso. Contrariamente alla mia idea dominante, più mi avvicinavo a quello scatolone cupo, d’uno stile quasi futurista, privo d’espressione artistica, insensibile finanche alla forza accogliente e melodica dell’irrompente scenografia del lago intenta a inglobarlo e a conferirgli un palpito di vita, più l’assenza di legami col contesto svuotava quel corpo amorfo della materia e sembrava svanisse in un’epoca di cui l’umanità non gradiva conservarne memoria. Entrai dalla porta del bar, non c’era neanche la ragazza, provai ad alzare la voce per dire: buongiorno!

«Signora? ». All’improvviso si spalancò la porta del sottoscala, e allo stesso tempo fui raggiunta da un tanfo di polvere umida, e dal torpore inquietante dell’ambiente buio e occupato da oggetti riposti alla rinfusa uscì la proprietaria e poi la seguì un uomo della sua stessa età del quale supposi fosse il consorte.
Mi si rivolse col tono autoritario dei borghesucci dell’Ancien Régime: «Prego, desidera?»
Le risposi che volevo informarla del mio bisogno di occupare la camera finché non avrei trovato un alloggio in cui poter abitare per il periodo del mio soggiorno a Dongo. «Tranquilla, nessuno oserà toglierle la camera in cui hanno dormito i personaggi più importanti della storia del Novecento». «Davvero», risposi! «Potrei sapere di chi si tratta?»

Mentre dentro di me mi sentivo un colpo allo stomaco per la strana coincidenza con la storia del personaggio che avevo detestato sin dai tempi della scuola elementare, da quando in quarta e quinta ci venne assegnata una maestra che ci esercitava a cantare “Bella ciao”.
Allungò le sopracciglia verso l’alto della fronte come se avesse voluto spronarmi a intuire di quale altezza morale si trattava e poi esplose: «Mussolini e la sua compagna!».
Non mi usciva una parola, mi si strinsero le labbra. La donna invece proseguiva col ritmo cadenzato di chi sta regalando qualcosa di profondamente intimo a qualcuno a cui a prima vista s’accorge di potersi fidare ciecamente: «Io ero una bambina, qui gestivano i miei genitori, ma ricordo con orgoglio quel grande periodo, mi dicevano stai zitta, nessuno deve sapere che sono nascosti nel nostro albergo…».
«No, signora non proprio, però mi vorrei organizzare in modo da raggiungere la scuola un po’ prima dell’orario previsto per l’inizio delle attività».
«Ah! Lei è un’insegnante?»
«Sì, comincio oggi e ringrazio Dio per questo dono meraviglioso», le risposi.
«Prego, prego prenda pure ciò che le occorre e quando va a scuola dica che l’ho onorata, le ho assegnato la camera del Duce e Claretta». Appurato che fossi un’insegnante, di colpo si liberò della tensione sorta dalle ipotesi sulla mia permanenza nel paese della svolta più importante della Seconda guerra mondiale.
D’altronde i timori dell’albergatrice non erano infondati, nell’anno del mio approdo a Dongo erano in corso le indagini sull’oro di Dongo, per cui la scoperta del mio impegno sociale permise al suo sistema nervoso di distendersi, mi lasciò salire le scale da sola, afferrai dalla valigia ciò di cui avevo bisogno, e mentre stavo superando il giardino con gli ombrelloni mi sentii chiamare «senta, senta…».
Mi girai, era la donna che voleva sapere se avessi gradito che avesse preparato qualcosa per me all’ora di pranzo. L’unica risposta possibile mi sembrò «Non saprei al momento, vorrei prima orientarmi negli orari della scuola e poi al rientro l’aggiorno su come potrò gestire il pranzo, comunque la ringrazio del pensiero gentile».
Benché allora né io né i miei coetanei fossimo stati sfiorati dall’intento della maestra, forse ciascuno nel suo silenzio ipotizzava “Bella ciao” come la canzone dei più grandi, cioè destinata agli alunni degli ultimi due anni del nostro segmento di scuola. Almeno questo era allora il mio pensiero.
Con gli occhi accennai la necessità di comunicarle qualcosa, capì e mi domandò: «Ha fretta?». Tuttavia non ricordo di averlo espresso a qualche mio compagno di classe, né di aver ascoltato una loro versione al riguardo; però, forse, inconsciamente avevamo realizzato di non essere stati scelti per la nostra età anagrafica, ma semplicemente ci era capitata una maestra attenta agli ideali di quella canzone. Solo dopo diversi anni ho riflettuto su quel periodo e ho capito quanto fosse aggiornata sul pensiero dominante e democratico della storia di allora la nostra maestra e su quanto fummo fortunati noi alunni ad apprendere dal suo pensiero. Certo gli insegnamenti sono pian piano divenuti lenti per leggere la storia sia del passato sia contemporanea e probabilmente il groviglio di sensazioni e pensieri raccolti nel tempo mi rendeva ostile la storia di quella camera.
Stavo attraversando la piazza, quando scorsi in lontananza una donna alta, robusta, dai capelli bianchissimi, né corti né lunghi, ondulati alla maniera delle bambine quando snodano le trecce, purtroppo la naturalezza era stata ferita da forbici poco allenate, dalla forma complessiva della chioma si capiva che erano stati tagliati in maniera artigianale. Nei pugni stretti e nerboruti aveva il manico d’un legno lustro, ancora etichettato dalla merceria, all’estremità volteggiava una scopa di saggina.
Appena giunsi a breve distanza dal suo monumento, con un’espressione diffusa fra viso e corpo mi fece intendere che mi stava aspettando per dirmi qualcosa di importante. La raggiunsi, le augurai un neutro, ma cordiale buongiorno, e lei mi rispose con l’enfasi tipica dell’attesa premeditata: «Buongiorno, buongiorno ben venuta fra noi». Non mi restava che ringraziala accompagnando la parola con un sorriso e una breve sosta per raccogliere l’espressione dei suoi occhi, non che avessi intenzione di perlustrare la testa di quella donna, semplicemente perché sin da bimba mi avevano abituata a scrutare e lasciarmi scrutare negli occhi, dopodiché la consuetudine di esaminare i contesti ha sempre preso piede da sola nella mia mente e in maniera più lesta e approfondita quando si è trattato di situazioni ancora ignote. Appena mi fermai mi disse: «Se cerca casa, l’ha trovata: qui al primo piano della Nicolini c’è già un’altra giovane ragazza che ha preso servizio da alcuni giorni, lavora nella segreteria della scuola. È un bilocale. La ragazza ieri ci disse che dalla scuola avrebbero contattato un’insegnante della provincia di Salerno, immagino che sia lei, vero? E che appena sarebbe arrivata le avrebbe proposto di condividere l’appartamento. Adesso che va a scuola le può dire che mi ha già incontrata, sono Norina, la domestica della Nicolini, e che l’abbiamo già accasata».
«Grazie signora Norina, grazie infinite, davvero le sono infinitamente grata per avermi accolta».
Alla seconda disponibilità dopo quella dell’albergatrice la mia gabbia toracica sembrava disabituata a gestire la pressione, avevo la sensazione d’un ambiente troppo intrusivo, caratteristica sempre estranea dalla mia natura. Pensai di sottrarmi alla fusione di interesse, curiosità, disponibilità nonché umanità con la voce del silenzio. Lei continuò: «Dove ha le sue cose? Gliele vado ritirare io e gliele faccio trovare già sistemate nell’appartamento per quando rientrerà da scuola».

Non mi sembrava corretto nei riguardi dell’albergatrice delegare la signora Norina a ritirare le valigie per poi riservarmi solo di andare a chiudere il conto. Norina aveva indubbiamente le sue ragioni, dipendeva dalla signora Nicolini e con il suo modo di fare non intendeva soltanto contribuire ad acciuffare un’altra inquilina per la sua padrona, probabilmente voleva anche dimostrarmi com’era propensa ad estendere la sua innata cordialità alla nuova recluta nella cerchia della notorietà sociale della Nicolini a Dongo e nei paesi confinanti, componente che compresi nei giorni successivi quando mi recai all’ufficio postale per indicare il mio domicilio e quando le colleghe provviste di automobili e in gran parte residenti in altri paeselli si fermavano per prendermi o a riportarmi in Piazza Paracchini anziché farmi attendere la corriera al fresco umido e sferzante. La signora Nicolini era stata la sarta degli abiti da cerimonia delle occasioni e degli eventi più significativi delle loro famiglie.
Se la informavo per tempo con chi sarei rientrata o che mi avrebbe presa la collega tal dei tali, la Nicolini si appostava anzi tempo al balcone del suo soggiorno e mentre io aprivo o chiudevo la portiera dell’automobile lei con la mano mandava un bacio alla collega, proprio come una nonna austera o la nonna ideale di una piccola comunità di paese. Ringraziai Norina tante volte e la rassicurai che al rientro da scuola avrei bussato al citofono e mi sarei fatta accompagnare a prendere le valigie. Per raggiungere la scuola percorsi la stessa strada sperimentata la sera precedente, gradualmente che avanzavo verso il cancello del giardino della facciata centrale dell’edificio scolastico incontravo persone dal passo spedito, chi con il sacchetto con la baguette, chi con borse da lavoro e la maggioranza con buste di frutta e verdura, tutti prima ancora che rivolgessi loro un cenno di saluto erano loro a salutare me con un’educazione gradevole, signorile, elegante, la similitudine più pertinente di quelle espressioni mi parve quella dei colori tenui, pastelli delle decorazioni delle complessità delicate del Rococò, la loro gentilezza spontanea sembrava sgorgasse dai loro volti e dall’insieme dei loro portamenti per festeggiare la mia circostanza, non ricordo persona che non avesse espresso con gli occhi e col volto un saluto di benvenuto quasi reverenziale.
In seguito più volte mi sono interrogata se il loro atteggiamento misurato e delicato fosse dipeso dal mio parlare con gli occhi piuttosto che con le parole. Chissà forse ero io giubilante, in uno stato di mitopoiesi e mi sembrava di percepire negli altri la festa! Fantasia o realtà? Non v’era differenza, erano comunque sentimenti positivi nella circostanza in cui mi trovavo. Quei modi eleganti mi permisero di iniziare la mia integrazione nella comunità in modo naturale e mai distaccata dal rispetto dei ruoli e dell’equilibrio.
Da allora, in ogni momento di distensione della mente, vorrei scendere dalle ali di un gabbiano e ritornare nella presidenza dell’istituto scolastico per rivivere le emozioni grandi che provai quando, al primo incontro, la preside, mi narrò pezzi significativi della sua storia famigliare, pianse persino quando giunse sul punto di descrivermi il suo rapporto con la madre e del rammarico che provava per gli impedimenti che le avevano creato gli impegni di lavoro proprio quando aveva bisogno di trascorrere più tempo accanto alla sua mamma.
Mi raccontò la sua prima esperienza di lavoro in una pluriclasse di scuola elementare di un paesino dell’Abruzzo. Mi predispose ad accennarle dei miei interessi di studio oltre a quelli che sarebbero stati gli impegni scolastici. Mi ascoltava con molta attenzione e mi fece capire, senza esprimere parole, che le mie risposte le servivano per confermare quanto già sapeva di me. Non so come avesse fatto, ma capii che mi conosceva come se fossi nata nella casa di fronte alla sua. Mi confessò che sia per me sia per lei l’anno scolastico che stava per iniziare era particolarmente importante. Rimasi un po’ stupita. Lei capì il mio disorientamento nella ricerca del perché e me lo spiegò. Mi chiamò innanzitutto per nome, scelta che sollecitò ancor di più il mio senso del dovere: una persona mai vista fino a quell’incontro, con un ruolo di guida e comando nei miei riguardi, mi chiamava per nome, inducendomi ad avvertire una fiducia forte nel suo operato. Anche io, dunque, avrei dovuto gestire nel migliore dei modi tutte le mie potenzialità, ricambiando la fiducia che mi veniva accordata, come era emerso sin dall’inizio del colloquio. Mi rivelò dunque che, se per me era il primo anno di insegnamento, per lei era il primo anno da dirigente. Proseguì quindi dicendo che insieme avremmo imparato e svolto in modo più che dignitoso il nostro lavoro. Intanto, la signora della segreteria che mi aveva accolta e l’aveva avvisata del mio arrivo bussò alla porta per dirle che aveva predisposto tutta la documentazione di rito per sottoscrivere il contratto di lavoro e che, se avevamo terminato il colloquio, avrei potuto accomodarmi nell’ufficio accanto per prenderne visione e sottoscriverla. «No signora Maria, li porti qui, la prof.ssa si può fermare nel mio studio fin quando lo desidera».
Mi sentivo molto sotto pressione e anche imbarazzata per il sentimento di gratitudine nei riguardi di un superiore così umano, chissà se riuscivo a mascherare la mia fatica nel gestire la relazione con parole e movimenti quanto più possibile dentro le righe! Nel frattempo che la signora Maria ritornava in ufficio per prendere i documenti e portarli sulla scrivania dove eravamo, la preside si affacciò alla porta e le comandò di avvisare le due funzioni strumentali, cioè due figure del sistema scolastico in una posizione gerarchica, con ruolo di stretta collaborazione con la preside. Arrivarono quasi contemporaneamente. Le fece rimanere in piedi e descrisse loro in sintesi la mia storia di formazione e miei interessi di studio e le anticipò su quale classe mi avrebbe messa e per quali motivi. Fin quando eravamo rimaste sole a dialogare non lo aveva detto neanche a me che intendeva collocarmi su una seconda a tempo prolungato e sul potenziamento di una terza nella sezione staccata di Garzeno.
Una delle due funzioni, una dolcissima emiliana ravennate mi fece cenno di alzarmi e di spostarmi insieme a lei alla finestra nel corridoio accanto allo studio della preside, mi disse di puntare il campanile più lontano all’orizzonte, l’ascoltai, ma lo intravedevo a malapena tra la nebbia rugiadosa di prima mattina.
Mi disse: «lì è Garzeno, la terza era la mia seconda fino allo scorso anno e la seconda era la prima della collega che hai visto dalla preside. Noi siamo state lì per tanti anni, abbiamo lavorato sodo per tenerci in piedi quella sezione staccata, però quest’anno sono usciti due posti di lettere qui nella sede centrale e poiché non siamo più giovanissime abbiamo deciso di scendere a valle. Ora tocca a te continuare sulla strada di tutto quello che abbiamo costruito io e la collega in anni di dedizione e impegno per i ragazzi e per tutta la comunità prealpina».
Ritornammo nello studio. La preside e l’altra collega stavano ordinando del materiale da consegnare ai docenti di nuova nomina. Mi scrutò e mi affidò un incarico importante sulla classe e mi consegnò un registro che avrei dovuto custodire a scuola, ma non me lo disse.

Così, ignara del regolamento, lo portai a casa e la preside me lo lasciò tenere, facendo finta di niente. Capì quale grande sentimento mi legava al lavoro che vi avrei gradualmente certificato. Uscita da scuola tenevo stretto il documento sul torace, pian piano ripercorrevo il ponte sul torrente Albano. Proseguivo a passi calmi e con lo sguardo volteggiavo a destra e a manca; mi soffermavo, scrutavo le forme del paesaggio, ripensavo alle narrazioni del Manzoni e a poco a poco scoprivo il Monte Legnone e la Grigna settentrionale. Sotto i miei piedi il torrente produceva una musica allegra, si fondeva con quella soave delle onde del lago poco più distanti. L’alternarsi di tonfi e silenzi rallentarono i miei passi, i tonfi e i silenzi si personificarono, assunsero nei miei riguardi un atteggiamento introspettivo. Mi fermai e osservai con un’aria di acquisita e legittimata appartenenza il registro che tenevo stretto fra le mani. Nel cuore avvertivo che mi si andava articolando un miscuglio di sentimenti, pervasi dalla gioia, perché quel registro era una fonte tangibile di come finalmente stessi iniziando a costruire la mia identità professionale.
Ma quando osservai come il torrente si immetteva nel lago, allargai lo sguardo verso l’ultimo orizzonte, per come avevo appreso da Leopardi, e vi scorsi il confine dell’altra sponda, limite al quale non ero abituata, poiché a pochi chilometri da casa mia ero avvezza a far sprofondare i miei pensieri nell’infinito, nel Mar Tirreno da piccina mentre già da grandicella il Tirreno era pur sempre il Mediterraneo. Nello scorrere del tempo avevo sostituito il Tirreno col Mediterraneo, lo slittamento dal piccolo al grande non lo avevo maturato soltanto per l’acquisita consapevolezza di poter adoperare l’iperonimo al posto dell’iponimo, ma anche per rispondere a un mio innato bisogno di percepirmi in spazi illimitati. Li ho sempre vissuti, questi ultimi, come più adeguati a sollecitare la mia anima ad avvertirsi dipendente dalla grandezza del Creato. La sensazione del limite mi invase di malinconia perché dovetti riflettere su quanto mi costasse la costruzione dell’identità professionale. Non era solo una questione di paesaggio (il lago e non il mare, la montagna e non la pianura), quanto piuttosto la nostalgia per la mia famiglia, per la condivisione affettuosa della quotidianità e dello scorrere del tempo.
Sollevai il collo del cappottino in gabardine color sabbia, prezioso non solo perché nella sua forma essenziale mi ci sentivo a mio agio quanto piuttosto perché mi profumava d’orgoglio. Lo sentivo particolarmente mio, lo avevo acquistato in un negozio nelle vicinanze di Piazza Plebiscito con i risparmi messi da parte dal compenso di una borsa di studio ricevuta dall’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli. Tirai più verso il mento la sciarpina di tessuto morbido stampata con fiorellini piccoli piccoli intonati alla tinta del cappottino, strinsi gli occhi e contemporaneamente il registro al torace e pensai che i miei genitori fossero orgogliosi della strada che avevo appena iniziato e che prima o poi, passo dopo passo, sarei arrivata a svolgere il mio lavoro nel territorio natio, e allora avrei condiviso l’entusiasmo dell’insegnamento con loro.
CONTINUA